Abitiamo un presente fatto di assoluti, senza un prima né un dopo.
Abitiamo un tempo della comunicazione che nega la domanda, la possibilità di non sapere e dunque di chiedere.
Ma se non c’è domanda, non c’è risposta. Non c’è dialogo, ascolto, incontro. Solo solitudini in collisione.
Eppure...
Il cappello di carta è l’immagine ingiallita e abbandonata di una storia qualunque, di un passato mai veramente conosciuto semplicemente perché poco o mai ascoltato.
Se oggi si è fatto narrazione emozionata è perché qualcuno, insieme a me, ha creduto nell’importanza della comunità, della condivisione e della tradizione.
Dubbiosi delle verità artefatte, delle notizie confezionate, del verbo indiscusso del girone mediatico, siamo usciti allo scoperto, nel groviglio delle strade, fiduciosi di incontrare una realtà vera perché vissuta.
E i “non visti” ci hanno sorpreso con i loro occhi e catturato con le loro voci mute, raccontandoci la guerra come nessun libro di scuola e nessun dibattito televisivo ha mai saputo fare.
Il cappello di carta è infatti la storia di chi la seconda guerra mondiale, la nostra guerra, l’ha vissuta ma non l’ha scelta: una comune famiglia romana, sullo sfondo di una realtà bellica ormai quotidiana, vuole vivere e sa vivere il proprio tempo, in un’altalena tra comicità e dramma, complicità e tensioni, illusioni e sogni, privazioni e speranze.
Uomini e donne che hanno sudato passione, che hanno mangiato sofferenza, che hanno rincorso e morso la vita.
E per amore della vita hanno sorriso e scherzato mentre intorno aleggiava la morte.
La piccola quotidianità si è fatta Storia.
Una storia che anziché essere letta può ancora essere ascoltata.
La storia di un nonno, il nostro.
Del suo dono: il suo racconto.
A noi la scelta di esserne i custodi e i testimoni.
Roberto Belli